La sera era arrivata, come sempre, rubando gli ultimi rossori dell'orizzonte, facendo sprofondare le ultime isole formate dalle nuvole in chissà quale abisso.
Eppure quella sera era diversa.
Era giunta prima, preannunciata da alcune folate del vento d'autunno che faceva piombare la natura nella solita catatonia di stagione.
La città era dipinta di bianco, o per lo meno così intuivo, mentre guardavo dalla finestra il buio lasciato dai lampioni pigri ad accendersi.
Uscii sul balcone, come di consueto, per cercare risposte nel cielo.
Prima di levare lo sguardo accesi una sigaretta e tirai due boccate di fumo denso e grigio.
«Dovrei smettere», pensai mentre ero ancora avviluppato nelle spire del fumo, sapendo bene che non l'avrei mai fatto.
La vista del cielo mi disgustò: neanche una stella.
Della luna solo una traccia, un bagliore adamantino che filtrava dalla coltre delle nubi.
Gettai la sigaretta appena iniziata, in preda allo sconforto: non era proprio giornata.
Nemmeno la vista del cielo mi era concessa, per cercare un po' della quiete perduta.
«Al diavolo», pensai, mentre vedevo i cinque minuti di vita che avevo appena guadagnato bruciare un piano più giù.
Rientrai in casa.
Pochi secondi, tanto mi c'era voluto per aprire e richiudere alle mie spalle la porta-finestra, quando ero uscito e rientrato, ma erano bastati perchè il freddo pungente dell'esterno facesse il suo ingresso in casa.
Mi avvicinai al camino, sporco di fuliggine da quando ero venuto ad abitare in quella casa, un millennio prima.
Mi sovvenne un'altra cosa che avrei dovuto fare e di cui puntualmente mi sarebbe mancata la voglia: pulirlo.
Scacciai il pensiero gettando dentro il camino qualche ceppo.
Imprecai quando, come al solito, mi bruciai le dita nel tentativo di appiccare il fuoco con un pezzo di carta di giornale, una spruzzata di alcol e un accendino.
Cercai il cane con lo sguardo: dormiva in un angolo della stanza.
Meglio lasciarlo riposare.
Doveva esserci dell'alcol nella dispensa.
Scotch... O rum, non ricordavo.
Tutto faceva brodo, in fin dei conti.
Risi dell'involontaria battuta, mentre mi versavo del pessimo liquore del supermercato nel solito bicchiere rotondo.
Portai con me verso la poltrona prospiciente il camino anche la bottiglia.
Non si poteva mai sapere.
Le sorsate e le fiamme del camino fecero il loro lavoro: presto il freddo era svanito.
L'occhio mi cadde sul telefono.
«Dovrei chiamarla», mi venne da pensare.
Anche questa era una delle cose che avrei dovuto fare.
Ma questa, a differenza delle altre, l'avrei fatta volentieri, se solo avesse avuto uno straccio di senso.
Ma non ne aveva. Ed era inutile star lì a guardarsi dentro il bicchiere, come se la mia immagine riflessa sulle pareti stesse annaspando nei ricordi.
Sibelius, il mio labrador, s'era svegliato, portandosi ai piedi della poltrona e mettendo il muso sulle mie gambe.
«Ti sono mancato?», gli domandai con un sorriso, accarezzandogli la testa.
Presi un'altra sigaretta dal pacchetto, l'ultima.
Dovevo avere una stecca iniziata da poco, in camera mia, ma ero troppo svogliato per trascinarmi fino a là.
La accesi e rimasi a fissare il pacchetto.
Aveva voluto che gliene lasciassi uno per ricordo, ma non gliel'avevo mai dato: l'aveva dimenticato in casa mia e da allora non l'avevo più rivista.
S'era anche presa una mia sigaretta, per ricordarsi di me.
Al pensiero di quel pomeriggio, gli occhi mi si inumidirono.
Tornai a parlare al cane: «Diventerai un vecchio sentimentale prima del tempo, con me...», gli dissi.
Per tutta risposta, Sibelius sbadigliò e si allontanò.
Il bicchiere di brandy era finito.
Avrei potuto empirlo di nuovo, ma non avevo voglia di alcol.
Dovevo a tutti i costi riuscire a vedere il cielo.
«Facciamo una passeggiata, Sibelius?»
Nessuna risposta; quel pigrone era ritornato a sonnecchiare sul tappeto.
Mi fece un po' male quel rifiuto, come al solito.
Presi la giacca e le chiavi e uscii. Non avevo bisogno di portarmi dietro altro.
Mentre camminavo per le strade vuote di una città assonnata mi vennero in mente le parole di una canzone che le avevo fatto ascoltare.
Iniziai a canticchiare quella triste melodia con la mia voce stonata e rauca.
D'improvviso, però, le note si smorzarono di colpo nell'aria.
Non mi ero accorto di aver imboccato una strada che non avrei dovuto prendere.
Era la strada in cui mi aveva tolto di mano la sigaretta che non avrei mai fumato.
Continuando a percorrerla, giunsi a una piazza.
I pochi avventori del chiosco mi concessero uno sguardo distratto di pochi istanti, per poi tornare a prestare attenzione alle proprie bevande.
Avevo una banconota nella tasca della giacca: con quella presi un'altra confezione di sigarette.
Mi sedetti alla fermata del bus presso cui avevo aspettato la vettura un paio di volte, assieme a lei, facendole compagnia prima del suo rientro a casa.
Mentre fumavo pensai a lei e gli occhi mi si gonfiarono di tristezza.
Perché era finita in quel modo?
Asciugai una lacrima ribelle che voleva a tutti i costi solcarmi il viso e carezzarmi una gota.
Non aveva senso restare lì.
Tornai verso casa, facendo la stessa strada dell'andata o forse un'altra completamente diversa.
Poco prima di rientrare mi fermai a guardare il cielo.
Era ancora coperto, ma uno spiraglio tra le nubi lasciava intravedere una stella luminosissima.
Poteva essere la Stella Polare. O forse era Giove... O Sirio.
Non l'avrei mai saputo. D'altro canto, Sirio B era troppo piccola per poter essere osservata a occhio nudo.
La stella mi sorrideva. Non rideva per me, rideva proprio di me.
Entrai in casa.
Se avessi guardato l'orologio avrei saputo che era mezzanotte in punto: l'inverno era appena cominciato.
Mi è piaciuto davvero molto... è malinconico e parrebbe autobiografico, ad ogni modo l'ho sentito anche un po' mio... comunque è frutto di una buona ispirazione, anche se di solito è inversamente proporzionale alla felicità...
RispondiEliminaGrazie della lettura,
Salvo