giovedì 4 settembre 2014

Recensione del Mein Kampf, George Orwell


È segno della velocità a cui gli eventi si evolvono che l’edizione integrale del Mein Kampf a cura di Hurst and Blackett, pubblicata solo un anno fa, è redatta da un punto di vista a favore di Hitler. L’intenzione ovvia che traspare dalla prefazione e dalle note del traduttore è di livellare la ferocia del libro e presentare Hitler in una luce il più favorevole possibile. Poiché all’epoca Hitler era ancora rispettabile. Aveva distrutto il movimento sindacale tedesco e per ciò le classi abbienti erano disposte a perdonargli quasi tutto. Sia la Sinistra che la Destra concordavano nella nozione frivola che il Nazionalsocialismo non fosse altro che una versione del Conservatorismo.

Poi all’improvviso si scoprì che Hitler non era rispettabile, dopotutto. Come risultato, l’edizione di Hurst and Blackett fu ripubblicata con una nuova sovraccoperta in cui si spiegava che tutti i profitti sarebbero stati devoluti alla Croce rossa. Tuttavia, basandosi semplicemente sulle prove interne al Mein Kampf, è difficile che si sia verificato un qualche cambiamento reale nelle mire e nelle opinioni di Hitler. Se si paragonano le sue esternazioni di un anno fa o giù di lì con quelle di quindici anni prima, ciò che colpisce è la sua rigidità mentale, il modo in cui la sua visione del mondo non si sviluppa. È una visione fissa di un monomaniaco e che non è probabile che sia molto influenzata dalle manovre temporanee della politica di potenza. Probabilmente, nella mente di Hitler, il Patto russo-tedesco non rappresenta altro che un’alterazione della sua tabella di marcia. Il piano delineato nel Mein Kampf consiste nel distruggere per prima la Russia, con l’intenzione sottintesa di distruggere l’Inghilterra in seguito. Ora, come si è rivelato, è dell’Inghilterra che bisogna occuparsi per prima, perché tra le due è stata la Russia ad essere più facilmente corrotta. Ma il turno della Russia giungerò quando l’Inghilterra sarà fuori dai giochi: è così, senza dubbio, che la vede Hitler. Se ciò si avvererà è ovviamente un’altra questione.

Immaginiamo che il programma di Hitler possa venire attuato. Ciò che si prefigura, fra cento anni, è uno stato perpetuo di 250 milioni di tedeschi con un sacco di “spazio vitale” a disposizione (ovvero espandersi fino all’Afghanistan o giù di lì), un orribile impero senza cervello in cui, essenzialmente, non accade mai nulla se non l’addestramento dei giovani alla guerra e la procreazione infinita di carne da cannone fresca. Com’è riuscito a propagandare questa visione mostruosa? È facile dire che a un punto della sua carriera sia stato finanziato dagli industriali pesanti, che avevano visto in lui l’uomo che avrebbe spazzato via i socialisti e i comunisti. Non l’avrebbero sostenuto, tuttavia, se non avesse già creato un grande movimento. Ancora una volta, la situazione in Germania, con i suoi sette milioni di disoccupati, era ovviamente favorevole per i demagoghi. Ma Hitler non avrebbe avuto successo contro i suoi molti rivali se non fosse stato per l’attrattiva del suo stesso carattere, che traspare persino dalla scrittura sgraziata del Mein Kampf e che è senza dubbio sopraffacente quando si ascoltano i suoi discorsi… Il fatto è che c’è qualcosa di profondamente attraente in lui. Lo si avverte di nuovo al vedere le sue fotografie; e vi raccomando in particolare la fotografia all’inizio dell’edizione di Hurst and Blackett, che mostra Hitler nei primi giorni delle Camicie Brune. È un volto patetico e cagnesco, il volto di un uomo che soffre il peso di torti intollerabili. In un modo piuttosto più mascolino riproduce l’espressione di innumerevoli immagini del Cristo crocifisso e vi è poco dubbio che è così che Hitler si vede. La causa iniziale e personale del rancore che serba nei confronti dell’universo può essere solo immaginata, ma è indubbio che quel rancore ci sia. È il martire, la vittima, Prometeo incatenato alla roccia, l’eroe abnegante che combatte a mani nude nonostante uno svantaggio impossibile. Se stesse ammazzando un topo saprebbe fare in modo che appaia come se stesse uccidendo un drago. Si ha la sensazione che, come nel caso di Napoleone, stia lottando contro il destino, che non può vincere, eppure che se lo meriti, in qualche modo. L’attrazione di una tale visione è certamente enorme: metà dei film che si vedono trattano uno di tali temi.

Ha anche colto la falsità dell’atteggiamento edonistico nei confronti della vita. Quasi tutto il pensiero occidentale, a partire dall’ultima guerra, e in particolare tutto il pensiero “progressista”, ha presupposto tacitamente che gli esseri umani non desiderino nient’altro che vada al di là dell’agiatezza, la sicurezza e l’evitare il dolore. In una tale visione della vita non vi è posto per, ad esempio, il patriottismo e le virtù militari. Il socialista che vede i suoi figli giocare con i soldatini ne è solitamente irritato, ma non è mai in grado di trovare un sostituto per i soldatini di latta: i pacifisti di latta non vanno bene, non si sa perché. Hitler, poiché nella sua propria mente senza gioia lo sente con forza eccezionale, sa che gli esseri umani non vogliono solo i conforti, la sicurezza, una giornata lavorativa breve, igiene, controllo delle nascite e, più in generale, buon senso; vogliono anche, almeno a intermittenza, lottare e abnegarsi, senza nemmeno considerare i tamburi, le bandiere e le parate militari. Nonostante ciò che possono essere come teorie economiche, il fascismo e il nazismo sono psicologicamente molto più solide di ogni concezione edonistica della vita. Lo stesso è probabilmente vero della versione militarizzata del socialismo di Stalin. Tutti e tre i grandi dittatori hanno guadagnato potere imponendo pesi intollerabili sui propri popoli. Mentre il socialismo e persino il capitalismo, in maniera più riluttante, hanno detto alla gente “vi propongo di star bene”, Hitler ha detto loro “vi offro stenti, pericolo e morte” e di conseguenza un’intera nazione si inchina ai suoi piedi. Forse in futuro se ne stuferanno e cambieranno idea, come alla fine dell’ultima guerra. Dopo qualche anno di massacri e fame “La maggior felicità per il maggior numero” è un buono slogan, ma in questo momento è “Meglio una fine orrenda che un orrore senza fine” a vincere. Adesso che combattiamo contro l’uomo che l’ha coniato, non dobbiamo sottovalutare il suo fascino emotivo.