Si
sente parlare spesso di “neologismi”, un po' come se il
cambiamento linguistico fosse una prerogativa dei giorni nostri e
prima di adesso le lingue non si fossero mai evolute. Questo
atteggiamento da parte sia dei media che dei parlanti può essere
spiegato attraverso una serie di fatti oggettivi, quali:
- l'estremo conservativismo dell'italiano scritto, che almeno fino all'Ottocento è stata una lingua particolarmente statica;
- il conservatorismo linguistico (e per certi aspetti anche grafico) della stampa, in particolar modo quella quotidiana locale, che porta spesso all'utilizzo di termini desueti (un esempio qui) e all'abuso del virgolettato anche in contesti che non lo richiederebbero, fino al punto «in» «cui» «ogni» «singola» «parola» «è» «tra» «virgolette»;
- la scarsa consapevolezza, per non dire competenza, linguistica e metalinguistica dei parlanti, che portano a delle perle del tipo “l'italiano è la lingua degli angeli” e “le lingue straniere sono bbbbrutteh” (semicit.), oltre che al sempreverde servizio di Carlotta Mannu per il TG1, doverosamente perculato da Giornalettismo.
Ci
siamo però mai chiesti cosa sia, obiettivamente, un neologismo?
Stando all'Oxford
Concise Dictionary, esso è “una parola o un'espressione
coniata di recente”, mentre il Vocabolario
Treccani dà una definizione più articolata:
Neologismo
s.
m. [dal fr. néologisme,
comp. di néo-
«neo-» e gr. λόγος«parola», col suff. –isme
«-ismo»].
– In genere, parola o locuzione nuova, non appartenente cioè al
corpo lessicale di una lingua, tratta per derivazione o
composizione da parole già in uso (per es.,
modellismo,
servosterzo),
o introdotta con adattamenti da altra lingua (per es.,
informatica,
dal fr. Informatique
e
ingl. informatics,
o guerra
lampo,
dal ted. Blitzkrieg;
ma in questi casi si parla più spesso di «prestito» o «calco»),
oppure formata con elementi greci o latini (e sono di questo tipo
la maggior parte dei neologismi tecnici, scientifici e d’altri
linguaggi settoriali, che vengono quotidianamente coniati nelle
varie lingue di cultura); la creazione di neologismi risponde alla
necessità di esprimere concetti nuovi, di denominare o
qualificare nuove cose e istituzioni, ma può essere anche opera
di singoli individui. Costituisce neologismo anche l’aggiunta di
un significato nuovo a parola già esistente; si parla allora di
n.
semantico,
per distinzione dagli altri, che sono detti n.
lessicali
(e
talora, quando l’innovazione consiste in sintagmi più o meno
complessi anziché in parole singole, n.
sintattici).
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Come
si nota, nessuna di queste fonti, pur autorevoli, dà riferimenti
cronologici espliciti in base ai quali classificare una parola come
neologismo o meno. Capita dunque che qualcuno consideri neologismi
termini ormai cementificati nel lessico dell'italiano come “chat”
o “email”, anche se entrambi sono ormai di uso comunissimo ed
“email” è attestato per la prima volta (in inglese) nel 1982
(qui
l'etimologia), mentre il sintagma “electronic mail” esiste dal
'77.
D'altronde,
come sottolinea anche il dizionario Oxford, il termine in inglese
esiste sin dal xix
secolo,
come prestito dal francese neologisme e nel Dizionario Etimologico di
Ottorini (pubblicato nel 1907), compaiono sia neologismo
che neologia.
Quindi, un po' paradossalmente, neologismo non è un neologismo. E
non lo sono nemmeno tanti di quei termini che vengono comunemente
definiti tali.
A
onor del vero, nel suo manuale di Morfologia,
Anna Maria Thornton sostiene che “[…]
nuovi lessemi di una lingua vengono creati continuamente, ogni
giorno” e presenta, a sostegno di questa affermazione, uno
studio
condotto da Harald Baayen e Antoinette Renouf che illustra la
produttività di alcuni affissi
(prefissi e suffissi) in un corpus costituito da articoli del Times
pubblicati tra il 1989 e il 1992. Il saggio di Baayen e Renouf
sottolinea come “la funzione della formazione di lessemi è quella
di esprimere (particolari sfumature di) significato, piuttosto che,
semplicemente, produrre forme dotate di una particolare struttura”.
Questa affermazione merita una
riflessione aggiuntiva: se la creazione di nuovi lessemi (parole)
serve a esprimere significati, allora non è possibile (o quantomeno
è molto difficile) dire quante parole sono presenti in una lingua.
Certamente, esistono alcune radici e alcune desinenze che non danno
origine a nuove parole, oppure lo fanno molto raramente, cioè che
non sono più produttive. Pensiamo ad esempio al plurale in -ini: se
chiediamo a qualunque persona di elencare tutte le parole che
conoscono che hanno il plurale in -ini, la maggior parte risponderà
che ne esiste solo una (uomini), alcuni che ne esistono due (uomini e
viragini). Questo significa che la formazione del plurale in -ini non
è più produttiva; le parole che formano il plurale con questo
suffisso non sono destinate ad aumentare, semmai a diminuire, tant'è
vero che “virago” viene usato (quelle poche volte che lo si
utilizza) come invariabile in numero. Esistono poi anche intere
classi di parole che non aumentano in numero: le preposizioni, le
congiunzioni, alcuni tipi di avverbi. Queste parole vengono definite
“parole vuote”, prive cioè di significato semantico (hanno però
significato sintattico e logico) o function words. Infine, ci
sono alcune classi di parole il numero dei cui componenti aumenta
costantemente. È questo il caso delle cosiddette “parole piene”
o content words, quelle che possiedono un significato
semantico, come i sostantivi, gli aggettivi, i verbi. A queste
categorie si aggiungono alcuni avverbi qualificativi (o di modo) che
vengono formati per derivazione del tipo radice + mente. Questa
regola di formazione delle parole era nuova agli albori della lingua
italiana, dal momento che deriva dalla diffusione, nella tarda
latinità, di locuzioni del tipo laeta mens “con animo
sereno”, ma adesso è usata stabilmente per generare nuovi avverbi.
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