Il
mese scorso ho scoperto, tramite la pagina Facebook di Mazzetta, un articolo
del Washington Post a firma di David Brown sulla presunta scoperta di “parole vecchie 15.000 di anni”.
Da
bravo studente di Lingue Straniere (anche se dico in giro che studio Linguistica,
perché fa più figo) l’ho letto e la prima reazione è stata quella di sollevare
un ciglio, che è stato seguito a ruota dall’altro, fin quasi a toccare il
soffitto. Tuttavia, non è mia intenzione smontare l’articolo, che riporta
soltanto i risultati di uno studio, bensì proporre una spiegazione in parole
semplici di cosa sia la famiglia linguistica indoeuropea e i motivi per cui
alcune parole delle lingue indoeuropee si assomiglino.
L’articolo
si apre con un breve virgolettato:
En.
“You, hear me! Give this fire to that old man. Pull
the black worm off the bark and give it to the mother. And no spitting in the ashes!”
It.
“Tu,
ascoltami! Da’ questo fuoco al vecchio. Strappa il verme nero dalla corteccia e
dallo alla madre. E non sputare sulla cenere!”
A
detta dell’autore, se potessimo tornare indietro nel tempo, fino alla
preistoria, e dicessimo quelle stesse frasi a un cacciatore-raccoglitore
dell’Asia in una qualsiasi delle lingue moderne è possibile che capisca almeno
una parte di ciò che gli è stato detto. Questo è vero soltanto in parte e tra
l’altro non è nemmeno una grande novità. I primi studi sistematici di
linguistica comparativa risalgono ai primi anni dell’Ottocento, nella Germania
del periodo romantico, proprio quando nasceva il sentimento nazionale in senso
moderno, sebbene già da molto tempo fossero note alcune somiglianze tra lingue
molto distanti geograficamente.
Risalgono
alla fine del XVI secolo le osservazioni avanzate indipendentemente dal
missionario inglese Thomas Stephens e dal mercante fiorentino Filippo Sassetti,
che notarono rispettivamente delle somiglianze nella forma delle parole tra il
sanscrito e il greco e il latino il primo, e tra il sanscrito e l’italiano il
secondo.
Devah
|
Sarpah
|
Sapta
|
Asta
|
Nava
|
Dio
|
Serpe
|
Sette
|
Otto
|
Nove
|
Tuttavia fu solo nell’Ottocento, come abbiamo detto, che nacque la linguistica storico-comparativa, che arrivò a ipotizzare l’esistenza, in epoca preistorica, di una lingua da cui discendessero tutte le europee storicamente attestate, che queste osservazioni divennero oggetto di studi approfonditi e sistematici.
Risale
al 1813, in un articolo comparso sul London Quarterly Review a firma di Thomas
Young, l’introduzione del termine “Indo-European” per descrivere le somiglianze
tra le lingue europee e quelle della penisola indiana. Grazie agli studi del
tedesco Franz Bopp, che paragonerà sistematicamente le lingue europee e indiane
antiche al fine di ricostruire questa lingua, tale termine diverrà di uso
comune nella linguistica e nella filologia. Nel 1819 Jacob Grimm (sì, uno dei
fratelli Grimm) formulò, sulla base di osservazioni già avanzate dal linguista
danese Rasmus Christian Rask, la legge della prima rotazione consonantica (o Erste Lautverschiebung), che spiega le mutazioni che i suoni consonantici
hanno subito nel passaggio dall’indoeuropeo al germanico.
A puro
titolo esemplificativo, paragoniamo le seguenti parole:
Antico alto
tedesco
|
Anglosassone
|
Latino
|
Greco
|
Sanscrito
|
Fader
|
Fæder
|
Pater
|
Pàter
|
Patar
|
Alto tedesco
moderno
|
Inglese
|
Italiano
|
Hindi
|
Vater
|
Father
|
Padre
|
Pita
|
Ci si
può accorgere già a colpo d’occhio che queste forme presentano una vistosa
caratteristica comune: tutte quante finiscono con un fonema (suono) dentale.
Schema che rappresenta tutte le consonanti polmonari. Le dentali sono raffigurate nel riquadro più grande. Fonte: International Phonetic Association |
Dal confronto tra queste (ma non
solo: sono state prese in considerazione anche le forme delle lingue baltiche,
di quelle slave, di quelle iraniche, ecc.) forme si è risalita a un’ipotetica
forma originaria *PƎTÉR, dinanzi il quale si pone un
asterisco per indicare che si tratta di una forma ricostruita e dunque non
attestata. Ma non finisce qui. Il suffisso -TÉR, a sua volta, serve a indicare
le relazioni di parentela. Non starò qui a elencare tutto caso per caso: basta
una ricerca di cinque minuti su Google per trovare tutte le occorrenze.
Bisogna però evitare di lasciarsi
prendere dall’entusiasmo. L’indoeuropeo non è una lingua come tutte le altre.
Qualcuno dirà “certo, è una lingua morta!”, ma questa osservazione è in realtà
errata. Una “lingua morta” o “estinta” è una lingua di cui si sa per certo che è esistita, dal momento che esistono documenti
redatti in tale lingua. Lingue morte sono il latino e il sumero, mentre
dell’indoeuropeo non abbiamo alcuna prova che sia effettivamente esistita.
Tutto ciò che abbiamo in mano è la ricostruzione di alcune parole (o meglio, di
alcune radici e desinenze) e di una grammatica, ma non abbiamo né documenti
scritti (stiamo parlando pur sempre di una lingua in uso nella preistoria, il
cui periodo unitario termina prima della fine dell’età del bronzo), né alcun madrelingua a
cui poter chiedere.
In quanto lingua ricostruita a partire
dalla comparazione di altre lingue storicamente attestate, l’indoeuropeo è una proto-lingua (Ursprache in tedesco, o
proto-language in inglese) che, per quanto se ne possa approfondire lo studio,
rimarrà questo: una costruzione dotta che, per quanto rigorosa, non potrà mai e poi mai essere dimostrata.
E se è già discutibile la ricostruzione
dell’indoeuropeo, ancora più problematica è quella di una famiglia Eurasiatica
e, continuando ad andare a ritroso nel tempo, di quella Nostratica (da cui,
secondo alcuni, sarebbe discesa la famiglia Eurasiatica) e di quella
Proto-Umana.
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